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Come riconoscere il Greenwashing: guida + test

Greenwashing, ovvero un lavaggio verde.

Ecco il termine sulla bocca di tutti con il quale si definisce quella tendenza da parte di alcune aziende a proporre un'immagine sostenibile di loro stesse, quando invece, a guardare bene, di sostenibile c'è poco.

Abbiamo già spiegato in un articolo di blog cos'è il greenwashing, ma ci è sembrato utile tornare sull'argomento per aiutare ad individuarlo e diffondere sempre più sensibilità sul tema.

Negli ultimi anni il mercato si è infatti adattato alla richiesta di prodotti sostenibili, cavalcando l'onda dell'eco-friendly come fosse una moda. Quello che prima era un mercato di nicchia ora è diventato mainstream e tutti tendono ad acquistare più volentieri quando un prodotto reca la scritta eco/conscious/recycled eccetera...

Il volto mutevole del greenwashing

Ti è mai capitato di comprare d'impulso un prodotto di una grande catena solo perché dichiarava che il 30% di questo oggetto era composto da materiali sostenibili? Ecco molto probabilmente sei caduta/o nella trappola del green washing.

La difficoltà consiste infatti nel saper distinguere quello che è il falso eco-friendly da quelli che invece sono i brand che davvero si impegnano per creare un'alternativa sostenibile ed etica.

Ci vuole occhio, spirito critico e allenamento. Perché via via che cresce la sensibilità da parte dei consumatori, cresce anche la capacità dei brand di adattarsi e rendere le loro comunicazioni ingannevoli.

Proprio per questo abbiamo deciso di creare una guida per riconoscere il greenwashing. Ecco quindi i punti chiave su cui interrogarsi per non cascarci più.

In fondo a questo articolo troverai anche un test anti green washing, che ti permetterà di riconoscerlo in pochi step. 

Per te inoltre una piccola sorpresa, per ringraziarti del tuo interesse verso una moda più sostenibile.

Comunicare la sostenibilità

Uno slogan non basta: servono certificazioni e fonti verificabili.

In questo caso è opportuno parlare infatti di green claims, ovvero pratiche commerciali che tendono a presentare un prodotto come sostenibile, senza dimostrare attraverso dati il reale impatto sull'ambiente.

A questo proposito ci sono però delle novità in cantiere. Il Circular Economy Action Plan, afferma la necessità da parte delle aziende di dimostrare che le affermazioni che fanno a proposito sono fondate e vere.

Un grande passo avanti è poi stato fatto con lo standard europeo UNI EN 14021, che dal 2021 richiede ai brand di comunicare in modo chiaro i reali impatti ambientali.

E non è solo per dire. Le multe per chi prende il tema sotto gamba vanno infatti da 5.000 fino a 5.000.000 euro. 

Sostenibile all'x%

"Questo capo è composto al 30% da materiali prodotti attraverso processi sostenibili". Quante volte leggiamo frasi simili sui cartellini dei prodotti?

CHE VUOL DIRE?!

Prima di tutto non c'è chiarezza su la natura dei materiali, e la vaghezza è una delle prime armi del green washing, che conta sulla pigrizia delle persone nell'andare a controllare e fare fact checking.

A parte ciò, una premessa è necessaria: non è mai semplice poter affermare qualcosa al 100% - anzi molto spesso è proprio dietro a un 100% sbandierato che può nascondersi il green washing.

Noi stessi più volte ci siamo definiti degli equilibristi nel cercare il miglior compromesso tra mercato e i nostri valori e per questo ammettiamo che esistono dei limiti. Siamo però convinti che il 20, 30% siano delle percentuali troppo basse.

Nonostante ciò, spesso vediamo grandi brand che producono tutta la maggior parte della collezione di stagione utilizzando materie prime tradizionali, dislocando il lavoro in Asia e poi creano una capsule collection di pochi pezzi "conscious". 

Non vinceremo la lotta al cambiamento climatico impegnandoci al 20%.

Dove avviene la produzione

Si tratta di un aspetto molto semplice da analizzare.

Se il brand dichiara una parvenza di sostenibilità, ma poi troviamo sull'etichetta un Made in Cina, Bangladesh, Taiwan, Marocco o qualunque altro paese dove il costo del lavoro è chiaramente inferiore a quello europeo e occidentale, abbiamo di che sospettare che si tratti di green washing. 

Questo perché non si può essere sostenibili solo per un aspetto e tralasciare gli altri. Utilizzare x% di materiali riciclati e poi produrre dove il lavoro non è tutelato e una persona guadagna 1 $ all'ora (circa) non è sostenibile.

Diciamolo, ribadiamolo, forte e chiaro.

Il modello produttivo

Per sviluppare un scudo anti greenwashing sempre meglio interessarsi non solo a dove, ma anche a come un brand produce. Anche se molto spesso questi aspetti vanno di pari passo.

È molto probabile che lo stesso brand che vanta di utilizzare fibre rigenerate, produca in Cina e lo faccia su larga scala (ne abbiamo parlato qui). 

Così a fronte di quel 20% di materiale sostenibile (di cui sopra), ne corrisponde l'80% tradizionale, sovraprodotto, sprecato e destinato alla discarica o all'inceneritore.

Oppure smaltito tramite saldi stagionali stracciati...

Prezzi e sconti

La conferma più lampante di un modello produttivo su larga scala si ha infatti al momento dei saldi. 

Quando riesci a trovare sconti perenni di un tale brand, occasioni imperdibili costanti, significa che il brand ha prodotto molto più di ciò che la domanda del mercato è in grado di assorbire. Così i prezzi sono bassi di partenza e diventano stracciati a fine stagione, ma dove si è perso il valore della materia prima e del lavoro?

Quella del prezzo è forse la trappola del greenwashing più difficile alla quale sottrarsi.

Perché siamo stati abituati a dei prezzi che nascondono sfruttamento e ingiustizie sociali.

Perché facciamo fatica a comprare solo il necessario, e cediamo all'accumulazione.

Ma anche perché negli ultimi periodi stiamo vivendo una riduzione del potere di acquisto notevole. Come testimonia uno studio ripreso dall'agenzia di stampa AGI infatti, solo 3 italiani su 10 sono disposti a pagare di più per la sostenibilità.

Anche con grande impegno, seppur consapevoli della differenza tra il prezzo della moda sostenibile e il fast fashion, la fatica è tanta, lo comprendiamo.

Ma è bene resistere, alzare l'asticella e non assecondare un sistema economico che ci vuole inconsapevoli.

Un sistema che ci spinge a non riconoscere il giusto valore ai processi e a lavarci la coscienza acquistando beni perché hanno un cartellino in carta riciclata con una scritta stampata di verde.

La sostenibilità parte da noi e il potere è nelle mani di chi acquista.

Solo se saremo più consapevoli, più svelti del greenwashing, riusciremo a vedere un cambiamento.

Un'alternativa al greenwashing è possibile

Dopo aver letto questo articolo potresti chiederti "ma quindi è possibile essere davvero sostenibili?"

La caccia al greenwashing potrebbe infatti facilmente trasformarsi in un'intolleranza verso qualunque tipo di offerta di mercato.

Quello che abbiamo davanti è sicuramente un mare di complessità. Ma non dobbiamo perdere la speranza. Esistono infatti tantissime realtà che si impegnano sinceramente per portare un cambiamento.

Anche noi nel nostro piccolo ci proviamo, producendo a km zero una linea di abbigliamento a partire dai materiali rigenerati.

Non siamo perfetti e infatti quando capita ammettiamo i nostri errori. Perché crediamo che una trasparenza quasi spudorata, sia l'unica vera arma contro il greenwashing.

Per concludere:

Ti proponiamo ora il nostro strumento per orientarsi in mezzo a tutti i marchi che si dichiarano sostenibili. Ecco il test anti greenwashing di Rifò.

 

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