Tropical mix, così viene chiamata la categoria merceologica che indica le balle da 40-50 kg piene dei nostri vecchi vestiti ormai diventati rifiuti che vengono esportati verso il sud del mondo.
Qualche tempo fa abbiamo scritto una articolo circa la raccolta differenziata dei vecchi vestiti tramite i cassonetti urbani in Italia. Quello che emergeva era che il 68% di ciò che viene buttato viene selezionato e destinato al riutilizzo e rivenduto, spesso nei paesi in via di sviluppo.
Vogliamo partire da qui, da queste balle di Mitumba, vestiti usati diretti in Africa, per parlare di un tema controverso, che porta con sé domande non solo sul piano dell'economia circolare e della moda sostenibile, ma anche antropologici e culturali.
Abbiamo deciso di farlo in occasione della Fashion Revolution Week 2021, per vedere il fast fashion da un punto di vista non troppo battuto, quello dei danni che provoca una volta che diventa rifiuto, non importa quanto ciò avvenga lontano dalla nostra realtà.
Cosa significa Mitumba
In swahili la parola Mitumba vuol dire "di seconda mano".
Per estensione Mitumba però indica un vero e proprio business, quello dell'acquisto delle balle di tropical mix dai paesi occidentali da parte di rivenditori locali che distribuiscono gli abiti usati nei paesi "ricchi", nei mercati dei paesi del terzo mondo.
(Cercando "Mitumba" su Youtube o sui social troverete i più connessi tra questi rivenditori locali, che utilizzano i social media per promuovere il loro business e spiegare come diventare rivenditori).
Ma cosa finisce in genere in queste balle? Non è sbagliato dire che ci finisce la selezione della selezione.
In pratica di quello che buttiamo nei cassonetti urbani viene trattenuto:
1. Ciò che è fatto di materiale pregiato e che può essere riciclato.
2. Tutto l'invernale (che non si adatta ai climi di alcuni paesi africani).
3. Quei pezzi che possono essere di interesse anche sul mercato vintage dei nostri paesi.
Il restante mix di abbigliamento leggero estivo parte, nella maggior parte dei casi verso l'Africa.
Il second hand in Africa crea posti di lavoro o soffoca l'economia locale?
La polemica sul tema del business legato ai Mitumba è in genere questa: se in Africa vengono acquistati per la maggior parte i nostri abiti di seconda mano, come si potranno sviluppare delle industrie locali di abbigliamento?
A questo proposito la domanda che ci dovremmo porre forse però è: di che tipo di industrie parliamo? Non si rischia forse che lasciando questo vuoto di offerta lo spazio venga occupato da inquinanti industrie di fast fashion, sicuramente più competitive ed economiche rispetto all'artigianato locale?
Alcuni stati tentano la via del protezionismo. È il caso di Ruanda, Uganda e Tanzania, che dal 2019 hanno bannato l'importazione di balle di Mitumba, anche se sui risultati a lungo termine di queste scelte ci sono molti dubbi.
Poi ci sono da considerare i posti di lavoro creati dall'economia dei Mitumba stessi. Secondo Humana, network internazionale presente in 14 paesi europei per la raccolta di abiti usati tramite i cassonetti urbani, questi sono i posti di lavoro creati grazie al loro export di Mitumba verso l'Africa e l'America.
Come si può vedere nel 2020 si è registrato un calo, probabilmente dovuto alla pandemia. In ogni caso si tratta di cifre di poco inferiori a 10.000 unità, ovvero il numero di persone che potrebbe vivere in un villaggio di piccole dimensioni in Africa.
Seconda mano per necessità, tendenza o consapevolezza?
Potrebbe sembrare una domanda banale ma ciò che sarebbe interessante capire è perché i paesi africani acquistano così tanto abiti di seconda mano?
Moda? Ricerca di influenze occidentali? Consapevolezza rispetto ai danni ambientali? Difficile da da dire, ciò che possiamo evincere però è che questo consumo è in crescita.
Sempre secondo i dati diffusi da Humana, questi sono i dati circa l'acquisto di abiti di seconda mano da loro esportati in Africa e Belize, comparati agli acquisti tra Europa e US, nei negozi di seconda mano sparsi per le città occidentali.
Una cosa poi è certa: in Africa ancora la maggior parte della popolazione vive in aree rurali, lontane dalle catene di distribuzione e dai centri commerciali. Come sottolinea Humana nel suo Progress Report 2018, qui l'economia dei villaggi ruota tutta intorno ai mercati. Senza questi abiti usati probabilmente gran parte della popolazione rimarrebbe tagliata fuori dall'approvvigionamento di abbigliamento.
Quale percentuale di abiti occidentali di seconda mano finisce nelle discariche in Africa?
Dopo aver visto il quadro generale legato all'acquisto di abiti di seconda mano, torniamo ai Mitumba, e a ciò che contengono.
In un documentario realizzato dall'Eeeb, European Environmental Bureau, vengono raccontati alcuni aspetti allarmanti della vendita delle balle di Mitumba in Kenya.
I rivenditori sono concordi: parte di ciò che arriva è di scarsa qualità e quindi viene riversato nelle discariche, che spesso sono a cielo aperto. Il rapporto su una balla di tropical mix è all'incirca questo: l'80% può essere rivenduto sui mercati, mentre il 20% è da buttare.
In Kenya, la più grande discarica è sicuramente la discarica di Nairobi, Dandora, una delle aree più inquinate del pianeta. Secondo Africa Collect Textiles, un ente che si occupa di raccolta e smistamento di abiti con sede a Nairobi, ogni anno circa 20 milioni di kg di rifiuti tessili devono essere smaltiti dalla città.
I danni del fast fashion di seconda mano
Il fast fashion è un danno, ovunque si trovi nel mondo. A essere un danno non sono infatti le balle di Mitumba, ma gli indumenti di cattiva qualità, quelli fatti con materiali obsolescenti, che utilizzano molte sostanze chimiche dannose.
Un indumento che nasce come un rifiuto, difficilmente diventerà qualcos'altro e i suoi impatti aumenteranno, non importa quanto lontano da noi lo spediamo. Andrà ad inquinare altre acque, ad essere bruciato in altre discariche (con ogni probabilità gestite in modo meno efficiente rispetto a quelle dei paesi sviluppati), a provocare malattie in altre persone.
Se le nostre abitudini di consumo fossero guidate dalla ricerca della qualità più che dal prezzo tutto questo probabilmente non succederebbe.
Ormai è diventato un mantra: il fast fashion non è gratuito, "qualcuno, da qualche parte, ne sta pagando i costi".
Abbiamo iniziato a scrivere questo articolo considerandolo in divenire, un tema aperto sul quale ci piacerebbe discutere con esperti e con chiunque ci segua.
Tu che ne pensi? Credi che ci siano altri aspetti importanti che non abbiamo menzionato? Scrivici tutto nei commenti!
1 commento
Così, su due piedi mi viene solo da aggiungere una cosa che non è direttamente collegata ma comunque potrebbe ispirare altre attività. Gli indumenti in Africa forse invecchiano anche prima a causa dei metodi di lavaggio: è vero che un lavaggio dura meno che in lavatrice però è un lavaggio a mano che consiste nello strofinare e strizzare. Usando sapone solido da bucato, al massimo in polvere.
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Rifò – Circular Fashion made in Italy replied:
Ciao Sara, grazie per il tuo contributo. È vero, non pensiamo mai abbastanza al fatto che come laviamo i capi incide sulla loro durata.
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