Hai mai sentito parlare di Fashion Revolution? Questo movimento prende forma nel 2013 e si batte contro un mondo –quello della moda– che troppo spesso ignora i diritti dei lavoratori e l'impatto che l'industria tessile ha sul nostro pianeta. Nasce infatti come risposta ai ritmi spesso disumani imposti dall'industria fast fashion, che sono stati la causa della tragedia di Rana Plaza in Bangladesh, nella quale 1.129 lavoratori di fabbriche tessili persero la vita, schiacciati dalle macerie dell'edificio, che crollò per la mancanza di norme sulla sicurezza. In questo articolo scoprirai nel dettaglio cos'è Fashion Revolution, quando e perché prende forma e quali sono gli obiettivi che si pone da un punto di vista etico e di sostenibilità.
La tragedia di Rana Plaza
Cos'è Fashion Revolution?
Fashion Revolution è un movimento globale formato da attivisti che credono in una diversa industria della moda, capace di rispettare i diritti umani e l'ambiente in tutte le fasi del ciclo produttivo. È con questo ideale e con questo proposito che nel corso degli anni si sono riuniti produttori, lavoratori e personalità di spicco della moda, seguiti da scrittori, imprenditori, politici, brand e negozi che hanno deciso di aderire a questa battaglia. La missione di Fashion Revolution è semplice: trasformare radicalmente l'industria della moda da un punto di vista etico con l'impegno di chi ama questo mondo e desidera cambiarlo per chi produce, acquista e consuma quei capi di vestiario dei quali troppo spesso non ci preoccupiamo di conoscere la storia. La Fashion Revolution vede scendere così in campo addetti ai lavori e pubblico, uniti in una battaglia che non riguarda una specifica azienda ma un intero mondo, una battaglia necessaria per far comprendere a tutti che un cambiamento è possibile.Come nasce Fashion Revolution
Il 24 aprile del 2013 è un giorno che resterà nella storia: sono circa le 9 del mattino quando a Dacca, la capitale del Bangladesh, un edificio commerciale di otto piani, il Rana Plaza, crolla su se stesso a causa di un cedimento strutturale seppellendo gli oltre 3000 operai che si trovavano al lavoro in quel momento. Si tratta di una delle più grandi tragedie della storia moderna, che costa la vita a più di 1.129 persone e conta 1.134 vittime. Una strage che avrebbe potuto essere evitata. Il giorno precedente, infatti, diversi lavoratori avevano manifestato i propri dubbi circa la solidità dell'edificio fatiscente e pieno di crepe. Temendo di perdere il proprio impiego gli operai si recarono a lavoro anche quel giorno, costretti dai proprietari delle fabbriche, impegnate nella realizzazione di abiti per numerosi marchi occidentali. Fashion Revolution vede la luce in questo momento: a idearlo sono le designer di moda Orsola de Castro e Carry Somers che a un anno di distanza dalla tragedia, il 24 aprile del 2014, proclamano il Fashion Revolution Day. Un giorno per onorare la memoria delle 1.133 vittime del crollo del Rana Plaza, edificio diventato il simbolo di un mondo che troppo spesso ha finito per anteporre il profitto ai diritti umani. Negli anni che seguono il movimento vede l'adesione di sempre più persone, unite dall'obiettivo comune di tutelare chi lavora nel mondo della moda. Comprendere come nascono i vestiti, da dove arrivano e qual è la catena di produzione, serve ristabilire il valore degli abiti che acquistiamo, domandandoci se tutto questo calpesta i diritti dei lavoratori, che spesso si trovano nelle aree più povere del mondo.
Le Fondatrici di Fashion Revolution
Chi sostiene Fashion Revolution
Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo.È così che Marina Spadafora, coordinatrice del Fashion Revolution Day in Italia, definisce l'obiettivo di un movimento che negli ultimi anni ha visto l'adesione di migliaia di persone e di nomi come Elio Fiorucci, Bernardo Bertolucci, Noah Stewart, Saturnino Celani, Domiziana Giordano, Giampiero Judica e Jordan Stone. Registi, musicisti, attori, lavoratori impegnati nel mondo della moda e semplici appassionati uniti in una lotta rivoluzionaria al grido di "Chi ha fatto i miei vestiti?"
Fashion Revolution verte sul costruire un futuro nel quale incidenti del genere non succedano mai più. Noi crediamo che conoscere chi fa i nostri vestiti sia il primo passo per trasformare l’industria della moda. Sapere chi fa i nostri vestiti richiede trasparenza, e questo implica apertura, onestà, comunicazione e responsabilità. Riconnettere i legami rotti e celebrare la relazione tra clienti e le persone che producono i nostri vestiti, scarpe, accessori e gioielli – tutto quello che chiamiamo fashion. (Orsola de Castro, co-fondatrice di Fashion Revolution)
La campagna di comunicazione #Whomademyclothes
La tragedia del Rana Plaza ha rappresentato per le ideatrici di Fashion Revolution un punto di non ritorno, un episodio a cui reagire che doveva necessariamente smuovere le coscienze di chi fa parte del mondo della moda, ma anche di produttori e semplici consumatori. Il rispetto per i diritti di chi lavora nell'industria della moda non può infatti essere messo in secondo piano in nome del profitto a tutti i costi. È con questo intento di sensibilizzazione che nasce la campagna di comunicazione #whomademyclothes, volta a spingere le persone a chiedersi da dove vengono i vestiti che comprano e a quali condizioni economiche sono stati realizzati."Stiamo facendo una campagna per un'industria in cui la protezione ambientale, così come i diritti umani, siano lo standard e non l'eccezione."A dirlo è Carry Somers, stilista britannica che ha fondato Fashion Revolution insieme a Orsola de Castro proprio all'indomani del crollo del Rana Plaza. Un evento che nelle intenzioni di chi ha creato il movimento dovrà spingere il settore della moda verso un cambiamento epocale e rivoluzionario. Dal 22 al 28 aprile 2019 oltre 3 milioni di persone hanno così aderito alla campagna #whomademyclothes, indossando un indumento al contrario e pubblicando la foto sui propri social network. Alla domanda "chi ha fatto i miei vestiti?" i grandi marchi taggati sono stati chiamati a rispondere, dimostrando la completa trasparenza della propria catena di produzione.
The True Cost, il lato oscuro della moda in un documentario
Rimanendo sul tema della catena produttiva, uno dei pilastri che ha contribuito a far nascere un movimento a favore di una moda sostenibile, è il documentario The True Cost, che coglie l'interrogativo della campagna #WhoMadeMyClothes? e cerca di dare una risposta, andando a vedere le fabbriche e i luoghi dove sono prodotti gli indumenti dei più grandi marchi di moda usa e getta. Quando andiamo ad acquistare un capo di abbigliamento nei grandi store e leggiamo "Made in China" o "Made in Bangladesh" sull'etichetta ci domandiamo mai quanto sia realmente costato? La problematica non riguarda solo gli investimenti necessari per acquistare il materiale e pagare i lavoratori, ma quanto questi ultimi siano costretti a pagare la mancanza di diritti, una situazione che li rende all'atto pratico moderni schiavi. La tragedia del Rana Plaza avrebbe potuto essere evitata, se solo gli operai avessero avuto la possibilità di far sentire la propria voce.
Realizzato nel 2015 dal noto regista britannico Andrew Morgan, The True Cost mostra il lato oscuro della cosiddetta fast fashion industry tra inquinamento, sprechi, sfruttamento del terzo mondo e diritti umani costantemente calpestati in nome del profitto.
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